• Programmatic
  • Engage conference
  • Engage Play
05/04/2017
di Alessandra La Rosa

Brand safety su YouTube, la rivincita degli editori? Il parere di RCS, WebAds, GroupM, Blue 449

La questione della sicurezza delle aziende sulla piattaforma video può portare a dei cambiamenti nelle scelte media delle aziende, a vantaggio dei publisher? Lo abbiamo chiesto ad alcuni top manager italiani. Ecco cosa ci hanno risposto

La recente questione della brand safety su YouTube è un evento che, al di là delle conseguenze concrete per Google e la sua piattaforma video (con una perdita di raccolta stimata in 750 milioni di dollari, comunque briciole rispetto ai fatturati di Alphabet), ha aperto un'interessante discussione sull’essenza della pubblicità automatizzata e sull’approccio ad essa da parte delle aziende. Se alcuni hanno puntato il dito contro il Programmatic, incapace come sistema di dare garanzie agli inserzionisti sulla sicurezza delle inventory e su una reale ed effettiva ottimizzazione della spesa pubblicitaria, altri hanno invece sottolineato come il problema non sta tanto nell’automatizzazione della compravendita di spazi tout court, quanto piuttosto nel fattore di rischio che acquistare su certe piattaforme media, più di altre, comporta. Si parla, nello specifico, di piattaforme che non possono garantire la qualità dei loro contenuti, perché sostanzialmente ne hanno una limitata responsabilità, fondandosi su approcci user-generated (vedi YouTube e Facebook), e che nella creazione della loro offerta pubblicitaria non hanno posto limiti alla monetizzazione dei loro spazi. Non è un caso che, in Inghilterra, dove è inizialmente scoppiato il caso YouTube, alcuni broadcaster hanno visto in queste ultime settimane un sensibile aumento della raccolta delle loro piattaforme video. Apparentemente, le aziende che sospendevano le loro pianificazioni su YouTube, le “spostavano” sui contenuti video online di editori come Sky, Channel 4 e ITV: contenitori capaci di garantire inventory di qualità, una cospicua reach e, non da ultimo, un controllo sui contenuti veicolati. La domanda a questo punto è chiara: questo avvenimento di YouTube può andare a beneficio degli editori “responsabili”, nel senso più letterale del termine, o più semplicemente degli editori tradizionali? Secondo Raimondo Zanaboni, Direttore Generale di RCS Pubblicità, sì: «Quello che è successo è ancora circoscritto all’estero, ma mi aspetto delle conseguenze a livello buyer anche sul mercato italiano – ci ha detto –. A quel punto è plausibile anche un effetto sugli editori. Senza dubbio quello che sta succedendo rappresenta una grossa opportunità per chi vende pubblicità: noi editori proponiamo alle aziende un contesto autorevole e certificato dove gli utenti leggono le notizie, e questo per i brand significa avere garanzie su dove pianificano i loro annunci. Un gruppo come RCS è in grado di offrire un numero molto corposo di utenti attraverso un sistema integrato su più canali, ed ha tutta l’affidabilità di un publisher autorevole, responsabile dei contenuti di qualità che produce. Caratteristiche che oggi diventano sempre più fondamentali». Ma c’è un altro aspetto da considerare: il valore economico di queste garanzie, come ci ricorda Constantijn Vereecken, Managing Director di WebAds. «L’offerta di contenuti premium da parte nostra è già valorizzata. Quello che a volte manca è la percezione del mercato a riguardo, un mercato abituato spesso a pagare poco inventory apparentemente simili. Non è cosi e i recenti avvenimenti lo dimostrano. I publisher impegnati ad investire in contenuti premium all’interno di ambienti safe esistono e vanno remunerati adeguatamente». Al di là della questione editori, e d’altro canto strettamente connessa ad essa, c’è anche un altro possibile effetto della questione YouTube: può arrivare a produrre un cambio di rotta nelle scelte media delle aziende? Secondo Fides Tosoni, Chief Digital Trasformation Officer GroupM Italia, per gli inserzionisti avere controllo sulla qualità delle inventory acquistate è un diritto fondamentale: «La qualità dei contenuti è quasi sempre negli occhi di chi guarda, ma gli inserzionisti hanno il diritto fondamentale di sapere dove i loro annunci vengono visualizzati ed essere gli arbitri del posizionamento dei loro brand. Gli editori devono assumersi la responsabilità per quanto pubblicato. In questo scenario, ricco di continui mutamenti ed evoluzioni tecnologiche – tipiche di un settore che non ha ancora raggiunto la sua completa maturità- , il nostro ruolo come agenzie media è quello di consigliare al meglio i nostri clienti e di utilizzare nella maniera più opportuna le tecnologie oggi disponibili – in particolare il programmatic – per tutelare al massimo i loro interessi. La decisione sul mix di publisher da includere nella loro strategia di comunicazione è e dovrà sempre rimanere nelle mani dei responsabili dei brand». E sul fatto che le aziende siano adesso più propense del passato ad optare per gli editori “tradizionali” piuttosto che per le grandi piattaforme come Facebook e Google, è d’accordo anche John Montgomery, Global Executive Vice President Brand Safety di GroupM: «Credo fortemente nel valore degli editori premium locali. I giganti internazionali dei media ottengono grandi quote di investimento ma sono difficili da tracciare e misurare. È più facile e sicuro per i nostri clienti lavorare con le testate nazionali. Prima vi era grande apprensione sui prezzi delle campagne ma ora l’attenzione è rivolta in gran parte alla viewability. La conversazione all’interno dell’industria si sta concentrando sulla qualità, sulla visibilità nel giusto contesto e sui CPM viewable. Gli editori locali sono più sicuri perché li conosciamo personalmente e con loro intratteniamo relazioni contrattuali più solide. In più, ci permettono di misurare e tracciare le loro piattaforme». Al di là degli effetti immediati su YouTube, la questione brand safety potrebbe dunque avere delle conseguenze più ad ampio spettro, gettando le basi per una possibile “rivincita” degli editori tradizionali sui grandi colossi di Internet sul piano pubblicitario. Questo scenario si sta materializzando anche in Italia? Apparentemente sì. Secondo Andrea Di Fonzo, ceo di Blue 449, infatti, anche nel nostro Paese esistono preoccupazioni sulla brand safety di YouTube: «Sì, la preoccupazione esiste anche in Italia. Abbiamo ricevuto molte richieste di chiarimenti e spiegazioni da parte dei clienti». L’impatto per brand ed editori, comunque, in Italia al momento è stato molto limitato: «Forse ci può essere un effetto nel breve periodo, molto dipenderà in futuro dalle capacità di Youtube di porre degli strumenti e approcci a garanzia. Di sicuro il nostro compito è quello di mettere in campo strategie di planning e adottare strumenti tecnologici che garantiscano e tutelino i nostri clienti, portando risultati di comunicazione». Resta di fatto che un evento del genere ha posto le basi per una nuova fase della comunicazione digitale, e Programmatic in particolare. Una fase in cui gli inserzionisti hanno acquisito una maggiore consapevolezza del potenziale, anche in termini di rischi, dell’automatizzazione pubblicitaria. Consapevolezza di cui gli operatori del settore dovranno tenere conto.

scopri altri contenuti su

ARTICOLI CORRELATI