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13/03/2017
di Alessandra La Rosa

Stuani: «La mancanza di cultura digitale delle aziende limita lo sviluppo del Programmatic»

Abbiamo chiesto al managing director Italy di RadiumOne se esiste nel nostro Paese un gap tra le conoscenze presunte e quelle effettive dei responsabili marketing. Ecco cosa ci ha risposto

Guidatori di auto d'epoca al volante di bolidi supermoderni. Con questa metafora Jodie Koning, marketing director della regione Asia Pacifico di RadiumOne, descrive "la maggior parte di noi marketer": professionisti (e la manager si autoinclude nel gruppo) che hanno delle conoscenze degli strumenti del settore profondamente obsolete rispetto a quanto necessario per condurre al meglio il loro mestiere di responsabili marketing. A pochi mesi dal suo incarico nella società specializzata in advertising tecnologico, la manager scrive sulla testata australiana Mumbrella: "La principale consapevolezza che ho raggiunto è il gap tra quello che i responsabili marketing dovrebbero sapere e quello che realmente sanno, che è una delle maggiori sfide per i brand marketer di tutte le categorie a livello globale". Un vuoto che è dovuto in prima istanza alla dinamicità di un settore, come quello del marketing digitale, che evolve in maniera fin troppo veloce (basti pensare a tutte le innovazioni portate negli ultimi anni dal marketing tecnologico), ed al cui passo non tutti i professionisti del settore riescono a stare. A meno che non ricevano un aiuto dall'esterno. Ma se l’opinione di Koning è basata su un contesto internazionale, qual è invece la situazione in Italia? Lo abbiamo chiesto a Mattia Stuani, managing director Italy di RadiumOne. Ecco cosa ci ha risposto. Mattia, qual è la situazione in Italia a tuo parere? Esiste questo "knowledge gap" di cui parla la tua collega australiana? «La situazione in Italia è molto simile se non addirittura peggiore dato che il peso e la penetrazione del canale internet è molto inferiore rispetto ai mercati più avanzati. Restando nell'ambito dei top spender del mercato italiano, ho trovato disparati livelli di competenza e di apertura durante i nostri incontri. Spesso, alla domanda, con quale industry lavorate di più, la mia risposta è "quella dove il referente del brand è più skillato o più curioso". Ma purtroppo, molte volte il digital marketing manager / Digital Media Manager è oberato di lavoro e non ha né le conoscenze di base per capire una potenziale opportunità derivante da nuove tecnologie, né la voglia o il tempo per studiarle. Purtroppo nulla di quello che oggi è presente sul mercato viene insegnato da scuole o istituzioni, quindi la grande differenza sta nell'attitudine del professionista nel tenersi aggiornato leggendo e incontrando i vendor che innovano. La Koning cita anche il ruolo dello IAB che dovrebbe attivamente guidare gli advertiser tra le evoluzioni e le nuove possibilità che i player Ad-tech e Mar-tech portano sul mercato. Purtroppo, permane uno scollamento tra le due parti per cui spesso la maggioranza degli advertiser non accedono a tali informazioni, per diversi motivi, complice spesso anche la mancanza di partecipazione alle attività IAB da parte degli advertiser. C'è molto lavoro da fare in questo senso e da quest'anno, uno dei miei propositi è contribuire anche a questo aspetto come associato. Un discorso a parte vale per le società dove c'è una forte presenza di investimenti online, parlo prevalentemente di advertiser che sfruttano da tempo canali di vendita online. In questo caso, spesso mi trovo al cospetto di professionisti molto competenti anche se devo denotare che è capitato anche in quest'ambito di trovare una completa mancanza di conoscenze, che è davvero come mettere un neo patentato a guidare un Boeing. L'Italia ha un enorme patrimonio di PMI, spesso a conduzione familiare e spesso senza una struttura digitale interna ed è già molto che siano svolte campagne Adwords e Facebook». Che ruolo dovrebbero avere secondo te gli operatori del settore per colmare questa differenza di conoscenze? «Dal mio punto di vista, in Italia, il vero ruolo di guida super partes spetta alle associazioni e in particolare allo IAB. In primo luogo, lo IAB ha il compito di certificare i vendor. Gran parte del distacco che gli advertiser hanno nei confronti dell'Ad-tech è dovuto a una miriade di società che spesso e volentieri sono "scatole vuote" che sfruttano la mancanza di competenze dei Brand per monetizzare servizi che non portano ad alcun ROI. Molte volte, iniziando un meeting, mi sono sentito dire frasi come "il programmatic non funziona" che è come dire che le fotografie vengono male; si tratta di regolare la messa a fuoco, l'esposizione e così via. Ci sono "50 shades of programmatic" e di modi per attuarlo. In primo luogo, quindi, come sottolinea la Koning, è importante che i brand abbiano un atteggiamento curioso e in secondo luogo è importante che venga fatta l'opportuna due diligence sulle società che si propongono come servizi tecnologici». A tuo parere questa poca conoscenza di concetti e tecnologie da parte delle aziende è un freno all’adozione del marketing tecnologico? «Chiaramente è un grande freno, i brand early adopters sfruttano e testano già diverse tecnologie da anni con conseguenti miglioramenti di efficacia delle loro spese media, mentre alcuni loro competitor sono ancora lì a chiedersi se approcciarle, perdendo molto terreno. Dall'altra parte, ci sono aziende che hanno sfruttato male i servizi tecnologici o hanno scelto il partner sbagliato, con la conseguenza che hanno messo da parte per molto tempo l'intera industry Mar-tech e Ad-tech. Sono del parere che i Brand, con il passare del tempo, inseriranno nuove competenze per comprendere meglio la gestione delle tecnologie, se non addirittura assorbiranno al loro interno una parte di queste tecnologie per una gestione diretta e trasparente. Quella che viene denominata come "digital transformation" è un processo che sta accadendo con diverse velocità. Sicuramente, la strada è tracciata, questo non toglie che il nostro compito è anche spingere per fare oggi quello che altrimenti verrebbe fatto domani».

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